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venerdì 8 luglio 2011

Il centrocampo è una terra straniera

Erano 66 nel 1995, sono giunti ad oltrepassare la soglia del migliaio (1032, per l’esattezza) nella stagione 2010/2011. Sono i calciatori stranieri ingaggiati dalle società italiane delle tre leghe professionistiche. Tacendo dei benefici tecnici ed economici che un calciatore straniero possa o non possa apportare agli avveduti o sprovveduti, gastoni o paperini (c’è chi pesca Pastore e chi Gaucho Toffoli) datori di lavoro della nostra penisola, l’incremento raccontato in settimana da Gasport non è altro che fedele specchio d’un valicar di frontiere in crescita esponenziale anche fuori dal rettangolo verde: 920.000 gli stranieri presenti in Italia secondo Caritas nel 1996 a fronte dei quasi 5 milioni stimati (per difetto) a gennaio 2011. Per un Felipe Melo che incassa e se la spassa, tanti poveri Josè ed Abdul che fatican ad arrivare a fine mese: a fine carriera (a San Siro o in catena di montaggio) torneran tutti a casa propria, ciascuno col proprio gruzzolo da metter a profitto o far durare sino alla morte. Ma se per strada lo straniero preoccupa, disturba ed inquieta, in campo e col pallone fra i piedi piace. Irresistibile la voglia d’esotici cognomi ed errori di pronuncia del calcio nostrano: nemmeno l’ultimo (ed unico) baluardo dell’italianità –la maglia azzurra- ha resistito alla tentazione d’aderire al petto venuto da lontano. Archiaviato Camoranesi –campione del mondo comprato alla causa ed al silenzio (“sono argentino, mi sento argentino, tifo Argentina, canto l’inno del mio paese,poi se volete visto che là non mi convocano con l'Italia gioco anche...”, dichiarò prima d’esser messo in silenzio stampa da una cospicua sponsorizzazione)-ecco Amauri e Thiago Motta. Sì’, perché il serbatoio dell’importazione è proprio il Sudamerica, dove ancora si gioca a pallone per strada come avveniva a Codogno o Marsala prima che nel Bel Paese sbarcassero il benessere, la Playstation ed i SUV. La vendita di calciatori è ormai (stima d’un economista statunitense) una delle più floride voci d’entrata di Brasile ed Argentina: il giovane talento assume rilevanza economica simile a quella d’un progetto industriale, vengono creati società e fondi d’investimento ad hoc per detenere frazioni del suo cartellino e venderlo ai gringos solo quando il board (spesso e volentieri una sorta di CDA composto dal manager scopritore, il babbo del ragazzo e qualche vecchia volpe latina dell’intermediazione) ritiene d’aver la pancia piena.
Il calcio europeo è per il Sudamerica ciò che Giappone, Russia o paesi del Golfo Persico rappresentano per stilisti ed artigiani Italiani: laggiù non possono raggiunger il nostro livello d’innovazione, di know-how, di design, di talento per il bello. Perciò le nostre firme vanno forte, permettendosi prezzi (e ricarichi) impensabili sul mercato domestico. Insomma, se Prada o Bisazza preferiscono inaugurar showrooms a Tokyo, Dubai e Mosca piuttosto che a Campobasso, Prato o Pordenone, così Paco Casal e Marcelo Simonian trasvolan l’oceano col sorriso fra i denti per venir a presentar il prodotto. Abituati al tocco ruvido ed al ciondolare agonistico ma poco romantico dei Gattuso, dei Donadel, degli Antonini, anche l'ultimo dei brasiliani o un uruguagio discreto ci sembreran la borsetta di Gucci in vetrina a Ginza,Tverskaya o Fifth Avenue: da comprare, a qualsiasi costo.
Chi fra i presidenti di casa nostra vuol  risparmiare o si sente pioniere, prova anche a pescar roba dove la vita ha meno alegria e di saudade neanche l’ombra del rischio; ecco allora islandesi, giapponesi, lituani, algerini, persino un suddito del Liechtenstein (Mario Frick) e due libici: Muntasser nella Triestina ed il rampollo di Gheddafi ad Udine e Perugia, dove lasciò un fugace ma dorato ricordo nel cuore e nel portafogli d’un paio d’albergatori.

Come si comporterà il Novara in serie A?